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Delle due facce cui virtualmente le sperimentazioni colla/sulla parola, sulla sua materialità, si possono ricondurre, ciò che mi interessa e intriga è senza dubbio quella della verbalità: la parola detta, il suo suono, il suo ritmo.

I testi “sonori” che realizzo con non troppa frequenza (ma ormai da almeno trent’anni) hanno al loro centro una ricerca che al di là della voce dell’esecutore (che può enfatizzare o meno alcuni particolari) vuole valorizzare le peculiarità intrinseche del testo; testo che nasce già predisposto per il sonoro, che si muove utilizzando ed elaborando su più piste/livelli un idioletto/pastiche di lingue parlate, letterarie, di dialetti. Nulla a che fare con ricerche folkloriche o filologistiche ma, piuttosto, elaborazione di uno spazio diverso dalla comunicazione primaria, per valorizzare il versante “materiale” proprio del testo (individuato, per motivi anche banalmente biografici, di interessi culturali, di esperienze di studio e di affinità emotive, negli strati linguistici storici dell’area padana). Analoga lingua utilizzo nei testi “lineari”, destinati cioè a trovare un loro spazio nella pagina a stampa e nella lettura silenziosa.
L’uso “con” la voce vuole proporre un arricchimento del significato (soprattutto di quello di secondo e terzo e quarto livello) e destabilizzare il senso comune. Poesia, pericolosa poesia, nulla di più.